10/01/2007

Il mio contributo zap-art-ista

Queste sono le immagini dei miei contributi alla mostra. Ce n'era anche uno più piccolo —tanto, che non veniva bene fotografarlo... Questa, invece, è una delle opere più grandi che ho fatto ultimamente. Il testo dice: "La dignità è biodegradabile e biodiversa. L'orgoglio è tossico e a volte radioattivo".


Uno dei lavori che ho presentato è la trascrizione di un testo che, un paio di anni fa, mi fece arrivare mio figlio Michele: il Manifesto della Rete di Resistenza Alternativa. Come base ho usato un catalogo di presentazione di una varietà di carta da stampa, opportunamente intervenuto con tempera per cancellare i messaggi pubblicitari. È dunque un supporto riciclato che invita ad essere aperto e sfogliato, per potere leggere un testo scritto a mano (anche se nessuno, praticamente, lo fa).




I curatori della mostra ci avevano chiesto anche un testo per commentare il senso del nostro intervento. Io non ho saputo trattenermi dallo scrivere il "malloppo" che aggiungo qui sotto...


Zap-art-ismo

Il sentimento dell’arte attinge, per me, da due fonti: una è la passione per il mondo, con le sue piccole e grandi meraviglie; l’altra è il disaccordo con la realtà, coi suoi grandi e piccoli orrori. Sono due emozioni elementari che la persona sperimenta nei confronti di ciò che, dentro e fuori, la circonda; di fatto, entrambe le direzioni sono sempre presenti, una come il rovescio dell’altra. Un concetto che viene ben riassunto da una frase di Valentí Puig, poeta e scrittore catalano di origine maiorchina: “Forse la letteratura è l’unico modo di poter dire che siamo a favore della realtà e insieme contro”.

Credo, inoltre, che qualunque opera d’arte, inevitabilmente, è per l’artista un modo di riappropriarsi del proprio potere —mi riferisco a quel potere-di-creare che forma parte delle nostre capacità personali e non trasferibili, insieme ai molti altri verbi che declinano le possibilità umane dell’essere e del fare, e che sono in realtà gli unici poteri per i quali val la pena lottare.

In un caso e nell’altro, per disaccordo o per riappropriazione, la pratica dell’arte si può considerare allora come un piccolo atto di insorgenza —cioè insieme di resistenza a ciò che non si condivide e di emergenza dell’imprevisto, di ciò che è nuovo ed inatteso, perfino per se stessi.

Questo, ovviamente, non dovrebbe essere affatto un previlegio riservato all’artista, bensì un cammino di esplorazione che ciascuno può sperimentare nell’ambito che preferisce. Però l’arte, precisamente per il fatto che invita la persona a fare un uso più autonomo e creativo dei propri poteri, è una pratica che la nostra civilizzazione promuove solamente in quanto eccezione —visto che la regola che impera è esattamente la contraria. Ed è qui dove ritroviamo il paradosso dell’artista, che sorge per ribellarsi ad un sistema in cui non crede e a cui si oppone, ma che questo stesso sistema esalta come il proprio esponente più illustre...

Che l’umanità, in termini generali, non abbia optato per l’esercizio dell’autonomia, bensì per lo sviluppo del controllo, fino a livelli pressochè impensabili, è una evidenza di portata planetaria; le ragioni, però, le capisco solo in parte, se teniamo presente che il risultato finale è un cumulo esorbitante di infelicità chiaramente evitabili. Non ci sono due modelli di potere più diversi tra loro: quello del verbo o quello del sostantivo; eppure, scivolare dall’uno all’altro è quasi la cosa più facile che c’è. L’artista, in linea di principio, la sua scommessa l’ha fatta —benchè a volte possa non aver piena coscienza delle ripercussioni politiche dei propri atti. Si tratta, di fatto, di una scelta elementare: non rinunciare all’esercizio del proprio potere (di essere e di fare), ed allo stesso tempo non volersi appropriare del potere degli altri. C’è qui tutta una poetica ed insieme tutta una politica. Che in fondo mi sembrano vicine a quelle del zapatismo —l’esperienza di rivolta che trasferisce al piano di un intero popolo questa pretesa scandalosa e magnifica: di voler essere autonomi e creativi come persone e anche come comunità; il che significa, precisamente, non rinunciare al sogno —ingenuo, direte voi, eppure imprescindibile, dico io— di una società senza dominatori nè dominati.

Nonostante la moltitudine di coloro che ne dubitano, l’arte forma parte delle attività di ricerca di senso. Ed è questo ciò che le permette di intessere un dialogo vivo con altre discipline, o campi di attività, o sfaccettature dell’esistenza —un dialogo, certamente, che non possiamo lasciare in mano a nessun tipo di esperto. Che sia chiara, comunque, una cosa: non si tratta soltanto di esporre opere d’arte, bensì di esporci, come persone, alla bellezza —sostenere, cioè, quel tipo di sguardo (da qualunque parte esso provenga) che ci interpella —a volte con un sorriso, a volte con una scossa— sul senso della vita che viviamo.

E alzi la mano chi pensa che questo è chieder troppo.